PATRIZIO MARIA PUPPO


IL_MONDO_DECOSTRUITO

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Nell’agosto del 1988, il rinomato Museum of Modern Art di New York diede vita a una rivoluzionaria esposizione intitolata “Deconstructivist Architecture”, sapientemente curata da due dei luminari dell’architettura contemporanea, Philip Johnson e Mark Wigley. Questo evento d’eccezione propose al pubblico le audaci opere di sette architetti emergenti, tra cui spiccavano Zaha Hadid, Frank Gehry, Wolf Prix, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Daniel Libeskind e Bernard Tschumi.

La mostra scatenò un vivace dibattito architettonico, segnando l’avvento di una nuova era nel mondo dell’architettura. Caratterizzata da una visione dinamica, frammentata e una decisa opposizione all’ordine classico, questa corrente architettonica aprì nuovi orizzonti creativi. Molti degli esponenti presenti, tra cui Hadid e Koolhaas, approfondirono gli studi sul constructivismo russo, mentre Eisenman collaborò con il filosofo della decostruzione Jacques Derrida, amplificando l’ambiguità del dibattito.

Nonostante il termine “deconstructivismo” fosse inizialmente estraneo a tutti i partecipanti, nel corso degli anni ha assunto una propria rilevanza autonoma, catalizzando una proliferazione di opere architettoniche appartenenti a questo stile. Tale fenomeno fu agevolato dal repentino mutamento del contesto mondiale, con l’apertura di nazioni come la Polonia e la Russia, e dagli eventi storici di risonanza mondiale, quali la caduta del Muro di Berlino e le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iraq.

In questo contesto di tumultuoso cambiamento, Daniel Libeskind emerge come un architetto rivoluzionario, plasmato da un background multiculturale e multidisciplinare. Nato nel 1946 in una Polonia post-bellica, da genitori profughi dei campi di sterminio, Libeskind ha iniziato i suoi studi musicali in Israele prima di immergersi nell’architettura presso la prestigiosa Cooper Union di New York, dove ha incrociato il percorso di Peter Eisenman. Le sue prime opere, influenzate dalle esperienze a Milano, Como, New York e Londra, lo definiscono uno sperimentatore eccentrico degli anni ’80. Si distingue per una sperimentazione audace e centrica, creando grandi congegni astratti che richiamano le riflessioni filosofiche di Deleuze, dove il pensiero offre un nuovo modo di vedere e comprendere l’architettura, mettendo in discussione le idee tradizionali di unità e totalità e proponendo invece una visione dell’architettura come un processo di divenire e di differenza.

Questi congegni si presentano come macchine astratte con disegni che ricordano partiture musicali, sfidando i canoni tradizionali. In italia queste visioni vengono presentate da Aldo Rossi, ma da pochi comprese e da pochissimi individuate come le future idee della nuova archiettura. La sua sperimentazione culmina a Berlino, una città che incarna la lacerazione e la vitalità. Nel 1987, realizza il City Edge, un edificio multifunzionale che intreccia corpi e sovrappone funzioni, interpretando in modo originale il concetto di stratificazione. In questo contesto, il layer assume una forza drammatica, presentando il dramma di un mondo che non può essere ricomposto. Il capolavoro di Libeskind è la nuova ala del Museo Ebraico di Berlino, un’opera che rivela una concezione architettonica senza precedenti. L’edificio si sviluppa come una linea spezzata e obliqua, un’interpretazione inedita e dinamica del museo tradizionale. Le linee e le forme laceranti creano un’esperienza labirintica e vertiginosa per i visitatori, aprendo nuove possibilità e sfide. Con il Museo, Libeskind va oltre la mera comunicazione architettonica, introducendo un simbolismo profondo e complesso. L’edificio non è una scatola standard per consumi di massa, ma una prova di architettura che sfida e apre una nuova era. Libeskind, con la sua visione innovativa, si distingue come un architetto che affronta il dramma, comunicando attraverso simbolismi intricati e forme che rivelano la lacerazione e la complessità del mondo contemporaneo.

Estratto rielaborato dalla lettura del cap. 7 di Architettura e Modernitá di A. Saggio